A volte melopéa, altre una serrata annotazione diaristica, più spesso un'abile trapunto di ironia, tenerezza e malinconia tenuissima che s'alza come un giunco di stupore o una rondine col suo leggero battito d'ali.

Per Adriana Viglione Massi scrivere è come volare, o accendere un fuoco. Libertà, insomma, e urgenza al tempo stesso. Ed i ricordi per lei sono una grazia da non disperdere; un dono, se si preferisce, che – per dirla con Rainer Maria Rilke – è come un luogo interno a cui tuttavia propiziare l'accesso. 

La linea tirata in questo libro non è quella finale di un consuntivo né, mi pare, il frammento mancante di un bricolage. Direi piuttosto che Elietta racconta. I miei primi ottant'anni si pone come la distillazione di uno sguardo lenticolare sulle vite (quindi non unicamente quella della nostra Autrice), sui luoghi, sugli accadimenti, sui sentimenti, sui tentativi di riscatto, sulle cadute che il tempo mareggiante ha adunato nello scorrere della vita senza però farne radici secche a riva. Nessuna dissoluzione immeritata né, grazie proprio alla tenace opera di ricomposizione di Adriana, alcuna  penosa dimenticanza tra le pieghe di consunti calendari.

Non si pensi però che queste testimonianze abbiano il respiro uggioso di una enorme, sconsolata malinconia. Al contrario, esse rampollano sempre e comunque – persino quando l'ombra del rimpianto alita tra le fessure delle righe e quasi le insidia – di sentimento crepitante, di un vitalismo mai domo. Perché la via, direbbe Antonio Machado e Adriana pare ricordarcelo con la delicatezza che gli è propria, si fa con l'andare, e la vita va celebrata con il tanto che ha di libertà e di bellezza.

Un atto di testimonianza, questo libro di Adriana che a sua volta ne contiene altri, tanto prodigo di segni e colmo di densità da poter essere chiamato amore. O canto.